Opzione put e violazione del divieto di patto leonino: nuovi spunti sul requisito di assolutezza
Published on 18th Oct 2017
Tribunale di Milano, Sez. impr., 18 ottobre 2017 - commento di Giovanni Penzo.
Traendo spunto dalla recente sentenza del Tribunale di Milano, l’autore torna a commentare gli attuali indirizzi giurisprudenziali di merito sull’applicazione ai casi concreti dei principi dettati dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 8927/1994 in punto nullità delle opzioni put a prezzo fisso per violazione del divieto di patto leonino, con particolare attenzione sui requisiti di assolutezza e costanza della esclusione del socio dalle perdite.
Il caso trattato in sentenza e il suo collocamento nell’attuale orientamento giurisprudenziale
Nuova decisione del Tribunale di Milano a favore della legittimità di una opzione put stipulata tra soci di una società di capitali nell’ambito di un accordo di investimento e relativo patto parasociale.
Il tema è assai noto: anche se di natura extrasociale un’opzione put avente per oggetto il trasferimento di una partecipazione societaria ad un prezzo pari o superiore a quello pagato dal socio per il suo acquisto (o sottoscrizione di capitale) può essere considerata uno strumento per realizzare l’esclusione del socio dalle perdite e, quindi, costituire una violazione del divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. Parimenti noto è come tutte le sentenze di merito che hanno affrontato la questione negli ultimi anni (1) abbiano fatto riferimento alla sentenza della Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927 (2).
Nella citata sentenza la Corte ha dettato i criteri che i giudici di merito devono seguire al fine di valutare la legittimità di pattuizioni, di rango statutario o meno, ai sensi dell’art. 2265 c.c. Con estrema sintesi la S.C. dispone che per ritenere una pattuizioneillegittima ai sensi dell’art. 2265 c.c. è necessario che: i) sia di rango statutario; ii) sia caratterizzata dalla natura assoluta e costante della esclusione della partecipazione del socio dagli utili ovvero dalle perdite ovvero da entrambe; iii) l’effettiva violazione del divieto sia valutata nella sostanza e non come mero giudizio formale (3); iv) si sia in presenza dell’effettiva possibilità per il socio leo di incidere sulla gestione della società (4); v) ove pattuizione extrasociale, la stessa abbia la funzione essenziale di eludere l’art. 2265 c.c., così concretizzando un negozio in frode della legge ex art.1344 c.c.; vi) sia esclusa, con indagine del giudice, una autonoma meritevolezza di tutela ex art. 1322 c.c. della pattuizione, in quanto ove esistente essa escluderebbe il ricorso all’art. 1344 c.c. e quindi l’applicabilità del divieto a pattuizioni extrasociali.
Non sarà oggetto di questo scritto la distinzione tra l’applicazione di tali regole a clausole di rango statutario e a clausole di natura extrasociale (5).
È tuttavia utile per il lettore rammentare che tra la norma codicistica, applicazione a pattuizioni di natura statutaria, e sua estensione interpretativa, applicazione a norme di natura extrasociale, vige un rapporto di genere a specie. Ne consegue che ove, nel valutareil caso concreto, il Giudice dovesse rilevare la carenza di un requisito necessario per dichiarare l’illegittimità di una norma di rango statutario, non sarebbe più necessario procedere con la specifica valutazione di meritevolezza dettata in materia di norme parasociali. Si tratta esattamente del caso in esame, nel quale il Tribunale di Milano ha concluso per la legittimità della opzione put contenutain un accordo parasociale, per carenza del requisito della assolutezza e della costanza della esenzione del socio dalle perdite. Proprio sull’approfondimento di tale requisito, spesso eccessivamente semplificato sia in giurisprudenza che in dottrina, si concentrerà il presente commento alla sentenza.
Assolutezza e costanza della esenzione dalle perdite nella giurispridenza di legittimità e di merito
Prima di procedere con un commento della sentenza in oggetto pare opportuno un breve sunto degli indirizzi attualmente prevalenti in punto totalità e costanza della esclusione. Il Presidente Estensore nella sentenza in commento fa diretto riferimento alla sentenza della Corte di cassazione per ricordare che l’eventuale esenzione del socio dalla partecipazione alle perdite, per configurare una violazione del divieto di cui all’art. 2265 c. c., deve essere totale (o assoluta) e costante. Si tratta di due requisiti distinti per quanto strettamente connessi: l’assolutezza (o totalità) dell’esenzione è un criterio quantitativo mentre la costanza un criterio di durata.
La connessione tra i due requisiti è evidente: affinché si configuri una violazione del divieto di patto leonino è necessario che sia escluso qualsiasi rischio di subire perdite, esclusione che si concretizza solo ove l’esclusione riguardi l’intera partecipazione (assolutezza) e duri per tutta la partecipazione del socio titolare del diritto alla società. In realtà, come si avrà modo di dire in seguito, il concetto di durata è assai più complesso.
La Corte di cassazione si dilunga sul criterio di assolutezza rammentando come la non corrispondenza tra parte di capitale detenuta e titolarità dei diritti patrimoniali è principio accolto, ed espressamente regolato (6), nel nostro ordinamento (7).
Più sintetico invece l’iter argomentativo seguito dalla S.C. in merito al requisito della costanza, più volte citata in sentenza ma definita solo come: “costanza ragguagliata al periodo di partecipazione del socio in posizione dominante”. Come si dirà tale sintesi ha creato non pochi dubbi nella sua applicazione ai casi concreti. Quindi affinché si realizzi una esclusione del socio da ogni perdita o utile, come espressamente previsto dallo stesso art. 2265 c.c., dovranno ricorrere entrambi i requisiti, circostanza rimessa all’accertamento del giudice di merito caso per caso (8).
Come si è avuto modo di esporre in un precedente scritto (9) il requisito della assolutezza non è mai stato oggetto di approfondite argomentazioni in giurisprudenza, venendo spesso ridotto, appunto, alla verifica della totalità della esenzione rispetto alla partecipazione detenuta. Un precedente lo si trova in una decisione del Tribunale di Milano del 2013 (10). Il caso era abbastanza elementare ma la decisione è pur sempre utile per esemplificare la concreta applicazione del criterio di assolutezza.
Il Tribunale era infatti chiamato a giudicare un caso di opzione put nella quale il prezzo di vendita era pari a metà dell’originario investimento. Ne concludeva il Giudice che l’eventuale esclusione dalle perdite, ove ipotizzabile, sarebbe stata solo parziale e non assoluta. Per quanto piuttosto lapalissiano il principio esposto nella sentenza aiuta a meglio focalizzare i dubbi che possono sorgere in punto assolutezza della esclusione nella valutazione di una opzione di vendita di partecipazione societaria. È infatti evidente che, in prima analisi, la totalità della esenzione dalle perdite si realizza con la parità o incremento del prezzo di vendita previsto nella opzione rispetto al costo dell’investimento iniziale (11). L’analisi tuttavia deve essere più complessa visto che, tanto per il requisito della assolutezza quanto per quello della costanza, l’esclusione dalla partecipazione alle perdite deve essere valutata ex ante come partecipazione al solo rischio e non come concretizzazione effettiva nel caso giudicato. Non costituirebbero quindi una violazione del patto leonino quelle opzioni put nelle quali la determinazione del prezzo di cessione sia tale da lasciare la possibilità che lo stesso risulti inferiore all’investimento iniziale.
Si tratta di ipotesi eterogenee che vanno dalla esclusione dalla formula di determinazione del prezzo di cessione della partecipazione di eventuali importi versati dal socio nel corso della partecipazione a titolo di copertura perdite, come nel caso trattato dalla sentenza in commento, ad altri casi quali, a parere di chi scrive, l’assenza di interessi sufficienti a coprire il costo del denaro nel caso di una partecipazione rilevante detenuta per un prolungato periodo di tempo (12). Si tornerà sull’argomento nel paragrafo dedicato al commento della sentenza pubblicata.
La giurisprudenza, al contrario, si è dovuta pronunciare più volte sul requisito della costanza, stante la maggiore complessità che si incontra ad adattare il requisito ai casi concreti nei quali l’esclusione dalle perdite verrebbe a realizzarsi proprio per tramite di una opzione put a prezzo fisso. Nella quasi totalità dei casi trattati in giurisprudenza (13), il diritto di opzione di vendita attribuito ad un socio era concesso solo per un limitato periodo temporale, contenuto tra un termine iniziale per l’esercizio (di solito non corrispondente all’entrata nel capitale sociale del socio) e un termine finale tendenzialmente ridotto (14). Nel silenzio della S.C. sul punto, la maggioranza delle decisioni di merito hanno concluso per l’assenza di costanza nel caso di limitazione temporale dell’esercizio del diritto di opzione di vendita (15).
Ciò detto le decisioni in oggetto non hanno fornito una motivazione puntuale del perché la limitazione temporale del diritto di esercitare l’opzione put farebbe venir meno il requisito della costanza della esenzione, esclusione che deve essere ragguagliata al periodo di partecipazione del socio secondo la S.C. Laddove questa motivazione viene fornita la stessa non appare totalmente convincente, fondandosi sull’asserzione che il mancato esercizio della opzione entro il termine finale comporterebbe l’assunzione da parte del socio dell’intero rischio di partecipazione alle perdite. Non a caso non sono mancate opinioni discordi sia in dottrina che in giurisprudenza. Si è infatti sostenuto che la sola limitazione temporale del diritto di esercizio della opzione, in quanto diritto potestativo rimesso allo stesso socio, non priverebbe l’esclusione dalle perdite del requisito della costanza essendo la stessa rimessa alla sola decisione del socio e non ad un evento esterno (16). In tale solco si collocano alcune sentenze di merito le quali, pur prendendo atto dellalimitazione temporale dell’opzione put, giungono comunque alla declaratoria di nullità della pattuizione per violazione del patto leonino (17). Nessun dubbio invece è stato avanzato, ovviamente, in merito alla carenza della costanza qualora la esclusione dalle perdite sia condizionata al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti (18). Ne consegue che qualora il diritto di opzione sia sottoposto ad una condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, l’ipotizzata esclusione dalle perdite del socio titolare del diritto sarebbe priva del requisito della costanza.
La sentenza in commento e la sua collocazione nel panorama giurisprudenziale
In questo contesto giurisprudenziale si colloca la recente sentenza del Tribunale di Milano la quale è di grande interesse proprio per la particolare valutazione effettuata dal Giudice del requisito di assolutezza della esenzione dalle perdite. Il caso era abbastanza semplice. Due soggetti si accordavano per un investimento destinato all’acquisizione di una società target, e per realizzare l’operazione costituivano un veicolo comune del quale il socio di minoranza sottoscriveva una quota rappresentativa del 12,5% del capitale sociale, versando euro 250.000. Nell’ambito degli accordi parasociali stipulati tra i soci del veicolo, il socio di minoranza (19) otteneva alcuni diritti di opzione sia di acquisito della partecipazione di maggioranza che di vendita della partecipazione da esso detenuta. Tra queste ultime l’opzione put poi esercitata la quale prevedeva la determinazione del prezzo per tramite di una formula basata sull’EBITDA e posizione finanziaria netta ma con un prezzo minimo di euro 325.000. L’operazione non riusciva e il socio di minoranza esercitava l’opzione put (espressamente qualificata dalle parti quale opzione di preliminare) invitando il socio di maggioranza a stipulare il definitivo e a pagare il prezzo minimo di euro 325.000.
A fronte del rifiuto del socio di maggioranza, il socio titolare della put agiva in giudizio per ottenere una sentenza che tenesse luogo del contratto definitivo ex art. 2935 c.c. e condannasse al pagamento del prezzo il socio di maggioranza. Quest’ultimo si costituiva contestando la legittimità ed efficacia della opzione put, tra gli altri motivi, per nullità della stessa per violazione del divieto di patto leonino. Il convenuto basava la propria difesa sui precedenti del medesimo Tribunale già in precedenza citati, e cioè principalmente sul caso Dea Partecipazioni – Sopaf e sulla conseguente sua conferma in Appello (20), giudizi conclusisi con la dichiarazione di nullità della opzione. Il Tribunale di Milano tuttavia riteneva che il caso in esame non configurasse una violazione dell’art. 2265 c.c. per carenza del requisito della totalità della supposta esclusione dell’Attore dalle perdite.
Di grande interesse e novità l’argomentazione del giudice milanese: nell’esaminare la formula di prezzo il giudice di merito rilevava come l’opzione concessa all’Attore non era idonea “a tenere indenne il DV da perdite che, verificatesi nell’intervallo temporale rilevante, avessero determinato la perdita del capitale sociale e la necessità di una sua ricostituzione, alla quale il DV avrebbe quindi dovuto necessariamente partecipare con un ulteriore investimento, pena la scomparsa dell’intera sua partecipazione e, con essa, dell’opzione put che tale partecipazione aveva ad oggetto”. In altre parole il Tribunale ha ritenuto che non potesse ritenersi escluso da ogni perdita l’Attore per effetto della opzione put, in quanto lo stesso rimaneva comunque esposto al rischio che, nel periodo intercorrente tra la sua entrata nel capitale sociale e il termine iniziale per l’esercizio della opzione, si verificasse una perdita integrale del capitale sociale sì da costringere quest’ultimo a incrementare il proprio investimento. Tuttavia, come rilevava il Giudice, questo ulteriore investimento non era previsto come componente della formula di prezzo, che prevedeva un prezzo minimo fisso, e quindi costituiva una perdita non “garantita” dalla opzione put.
Ad una prima lettura della motivazione verrebbe da chiedersi se l’ipotetico rischio identificato dal Tribunale sia idoneo ad escludere la ricorrenza del requisito della assolutezza, stante la natura estrema dell’ipotesi formulata in sentenza (perdita integrale del capitale sociale prima dell’insorgere, o meglio dell’efficacia, del dritto di vendita) (21). Si tratta di quella valutazione che la stessa Cassazione del 1994 già ipotizzava allorquando affermava espressamente che quando la partecipazione alle perdite, per effetto di una pattuizione “sia subordinata a limiti tali da rendere la partecipazione alle perdite o agli utili praticamente impossibile, si verterebbe sempre in una convenzione leonina camuffata, soggetta al precetto dell’articolo in esame che ne sanziona la nullità”. Ma anche tale valutazione non può che basarsi sugli altri elementi del caso concreto. Nel caso in esame il socio di minoranza effettuava il suo investimento di euro 250.000 nell’aprile 2011, mentre il diritto di opzione era esercitabile per un limitato lasso di tempo compreso tra il 31 marzo 2014 e il 1 giugno 2014.Quindi il periodo di esposizione a tale rischio del socio titolare del diritto di opzione put era di ben 3 anni, periodo non a caso indicato come rilevante in sentenza e più che idoneo a rendere concreta l’eventualità che in tale periodo si verificasse una perdita integrale del capitale sociale della società (22).
La decisione del Tribunale, se letta alla luce dei sopra esposti orientamenti giurisprudenziali, non solo appare ben motivata ma altresì contribuisce ad approfondire l’analisi dei citati requisiti, approfondimento fino ad oggi mancato in giurisprudenza. In primo luogo, forse per la prima volta, la sentenza interpreta e applica in maniera approfondita il concetto di“assolutezza” della esclusione, chiarendo che tale valutazione deve basarsi sul confronto tra l’investimento iniziale e la determinazione del prezzo di cessione previsto nella opzione. Diverse possono essere le ipotesi in cui un prezzo di cessione apparentemente uguale o superiore all’investimento iniziale è soggetto ad eventi che ne potrebbero ridurre il valore. Un caso è quello esaminato in sentenza ma altri se ne possono ipotizzare. Ad esempio un prezzo apparentemente idoneo a garantire il recupero dell’investimento, tale potrebbe non essere nel caso in cui non tenga conto di altri elementi economicamente rilevanti quali la remunerazione del capitale investito con la previsione di adeguati interessi.Se infatti l’investimento iniziale avesse una certa consistenza e la pattuizione prevedesse un rilevante lasso di tempo tra la sua effettuazione e la possibilità di recuperarlo con l’esercizio della opzione, il socio subirebbe comunque una perdita, oltretutto certa e non solo ipotetica, consistente nel differenziale del costo del denaro (interessi bancari) e la sua remunerazione nel prezzo (interessi previsti quale componente del prezzo) (23). Si potrebbe opporre che in tale ipotesi il capitale investito rimarrebbe integro e quindi non si potrebbe parlare tecnicamente di perdite. A tale obiezione si può rispondere però che l’incidenza economica di tale eventualità è spesso superiore, ad esempio, rispetto ad una rilevante limitazione della incidenza delle perdite eventualmente prevista in statuto a favore di un socio ai sensi dell’art. 2348 c.c., come noto considerata legittima. D’altro canto, a prescindere dalla qualificazione tecnica dell’evento quale perdite o meno, la “perdita” dovuta alla mancata remunerazione del capitale investito è idonea a determinare quell’attenzione del socio alla vita sociale che proprio il divieto di patto leonino, secondo unanime orientamento, vorrebbe tutelare (24).
Questo il contributo più evidente della sentenza.
Tuttavia la decisione in commento contribuisce, seppur implicitamente, anche a meglio chiarire il requisito della costanza della esclusione. Si è detto del contrasto insorto tra chi sostiene che la limitazione dell’esercizio del diritto in un ristretto lasso temporale escluderebbe la costanza della esclusione e chi al contrario ritiene che l’esclusione possa essere ritenuta costante anche a fronte della limitazione temporale della opzione put. Nel caso in esame il lasso temporale di esercizio della opzione era assai ristretto, soprattutto se valutato alla luce del rilevante intervallo esistente tra l’effettuazione dell’investimento e il termine iniziale della opzione. La decisione del Tribunale, seppur fondata sull’assenza dell’assolutezza della esclusione, nell’individuare quale “esimente” un evento che si può verificare prima del termine iniziale di esercizio della put, evidentemente avvalora la tesi di chi sostiene che limitazione temporale del diritto di opzione renderebbe non costante l’esclusione dalle perdite. Infatti, in maniera assai più convincente delle argomentazioni ad oggi espresse sul punto (25), la sentenza ha il merito di fare emergere come in generale se il diritto di way out garantito dalla opzione non ha durata coincidente, in tutto o per buona parte, con il periodo nel quale perdura il rapporto societario, possono insorgere altri elementi di rischio idonei a minare l’assolutezza della esclusione. Forse per questo la S.C., nel definire il requisito della costanza, si è guardata dal sostenere che deve permanere per tutta la durata della partecipazione del socio leo, ma si è limitata a dire che deve essere ragguagliata a tale periodo.
D’altro canto, come detto, il principio di assolutezza e quello di costanza sono intimamente connessi, non solo perché devono sussistere entrambi per potersi ipotizzare una violazione dell’art. 2265 c.c., ma anche perché la valutazione dell’uno può influire sulla valutazione dell’altro, esattamente come accaduto nella decisione in oggetto.
Cenni conclusivi
Il positivo contributo fornito dalla sentenza in commento, per altro verso evidenzia proprio l’opinabilità e soggettività cui è sottoposta una decisione delicata, quale è la dichiarazione di nullità di una pattuizione liberamente stipulata tra soggetti terzi rispetto alla società. È infatti a tutti ben evidente l’interesse del socio gravato dall’obbligo di acquisto di una partecipazione a contestarne la validità per evitare l’esborso del prezzo. Proprio l’opinabilità di alcuni dei principi sopra esposti, o meglio della loro applicazione al caso concreto, consente di ipotizzare quel margine di successo dell’azione legale che rende inevitabile la contestazione giudiziale del diritto di opzione.
Per rimanere in tema non si sottrae a tale possibilità anche la sentenza in commento. È infatti sicuramente corretto sostenere che l’eventuale azzeramento del capitale sociale per perdite costringerebbe il socio, per mantenere in essere l’oggetto della opzione put, ad incrementare il suo investimento con un ulteriore versamento a capitale. Parimenti corretto è concludere che se tale versamento non fosse compreso nel prezzo della opzione put e tale prezzo, quindi, dovesse risultareinferiore al complessivo investimento, il socio subirebbe una perdita.
Non sfuggirà però la quantità di condizioni che caratterizzano l’ipotesi: deve verificarsi una perdita tale da azzerare il capitale sociale, l’altro socio deve essere disposto a coprire integralmente la perdita a prescindere dalla volontà del socio leo (26), il versamento per ricostituire il capitale deve essere di entità tale da rendere il prezzo fisso previsto nella opzione inferiore a quanto complessivamente investito dal socio titolare dell’opzione (27). A questo punto la valutazione se tale rischio sia sufficiente a ritenere che il socio dominante non sia escluso da ogni perdita ovvero lo stesso sia così remoto da non minare il principio di assolutezza non può che essere rimessa alla discrezionalità e sensibilità del giudice.
In altro scritto si è sostenuto che per evitare tale opinabilità in materia di pattuizioni extrasociali il giudizio dovrebbe essere incentrato sulla prova della volontà delle parti, ex art. 1344 c.c., di eludere il divieto (28), così come chiaramente decretato dalla sentenza del 1994 della Corte di cassazione.
Vero è che tale analisi porterebbe, nella netta maggioranza dei casi, ad un rigetto delle domande di nullità, stante la difficoltà di raggiungimento della prova dell’intento fraudolento. Tuttavia tale conseguenza appare la corretta rappresentazione giuridica della realtà di fatto, in cui l’imprenditore che investe lo fa con l’intento di moltiplicare il valore del proprio investimento e non con quello ben più limitato di recuperarlo tempo dopo.
Quest’ultimo aspetto, tutelato dall’opzione, non rappresenta lo scopo dell’investimento ma, quanto meno, la garanzia della recuperabilità dell’investimento iniziale (29). Al contrario lo scopo principale è perseguito proprio agendo per la buona riuscita dell’attività sociale.