Legittimità delle Opzioni di vendita di partecipazioni societarie a prezzo fisso di natura parasociale
Published on 27th Nov 2016
Un breve itinerario delle più significative sentenze che si sono susseguite negli ultimi cinque anni preceduto da una sintesi della sentenza della Corte di cassazione che fin dal 1994 ha dettato le “linee guida” alle quali dovrebbero attenersi i giudici di merito.
Oscillazioni e incertezze interpretative. Premessa
Due recenti decisioni della Corte d’Appello di Milano sembrano avere nuovamente aperto la questione, in realtà mai chiusa, della validità delle opzioni put a prezzo fisso. La vicenda è ben nota: le opzioni di vendita di una partecipazione sociale rilasciate da uno o più soci di una società a favore di un altro socio, solitamente al momento della sua entrata nella compagine sociale, se prevedono un prezzo fisso di cessione della partecipazione, potrebbero essere valutate quale esclusione di detto socio dalla partecipazione alle perdite, con conseguente nullità ex art. 2265 c.c. per violazione del divieto di patto leonino. Il condizionale è d’obbligo in quanto, specialmente in merito ad alcuni dei requisiti indicate dalla Corte di cassazione per stabilire la legittimità o meno della pattuizione, le chiavi di interpretazione adottate nelle varie sentenze appaiono assai differenti. L’incertezza interpretativa, la gravità della sanzione connessa (nullità dell’obbligo di acquisto), il valore delle controversie (spesso elevato) e in fine l’ovvio interesse del socio gravato dall’obbligo di sottrarsi allo stesso, sono le condizioni ideali per l’instaurazione di contenziosi forse evitabili.
La ratio del divieto e l’indirizzo della Corte di Cassazione
Come noto l’art. 2265 c.c. sanziona con la nullità il patto che esclude uno o più soci da ogni partecipazione agli utili o alle predite. Norma di genesi quasi ancestrale, l’art. 2265 c.c. introduce un divieto che, dopo varie evoluzioni, troverebbe la sua ratio nella tutela del bene comune costituto dalla generale corretta gestione delle società. Secondo la dottrina, sottesa al divieto di patto leonino vi sarebbe “la inderogabile esigenza dell’ordinamento giuridico che alla partecipazione alle decisioni e quindi alla possibilità di indirizzare la gestione sociale corrisponda necessariamente una assunzione di rischio e, per conseguenza, sul piano giuridico, di responsabilità sia pure nei limiti della quota” (A. Gambino, Azioni privilegiate e partecipazioni alle perdite, in Giur. Comm., 1979, I, 379), esigenza posta a tutela dell’intero sistema. Facendo propria tale istanza la giurisprudenza, non senza tentennamenti e disomogeneità applicative, ha di fatto esteso l’applicazione del divieto, dettato in materia di società di persone e di pattuizioni statutarie, alle società di capitali ed agli accordi di natura extrasociale.
Si giunge così alla sentenza della Cass., Sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, sentenza con la quale vengono indicati dalla S.C. i criteri che dovranno guidare i giudici di merito nella valutazione della legittimità o meno di un patto potenzialmente leonino e della possibile applicazione della sanzione di nullità anche alle pattuizioni extrasociali. In attesa di ulteriori decisioni della Corte di cassazione, la decisione del caso Laminatoio di Buttrio rimane a tutt’oggi la pronuncia alla quale tutte le sentenze o provvedimenti in materia fanno chiaro riferimento, teoricamente senza mai disattenderla, ma in realtà giungendo spesso a conclusioni che divergono sensibilmente dal precedente o ne costituiscono solo una applicazione parziale.
La Corte di cassazione aderisce alla individuazione della ratio del divieto in un superiore interesse del sistema alla corretta gestione societaria ritenendo “che la partecipazione agli utili ed al rischio dell’esercizio dell’impresa costituiscono il migliore incentivo all’esercizio avveduto e corretto dei poteri amministrativi”. Quindi detta i requisiti necessari affinché possa giungersi alla declaratoria di nullità della pattuizione. Correttamente la Corte esamina per prima la fattispecie “tipica”, ossia espressamente prevista e sanzionata dall’art. 2265 c.c., cioè le pattuizioni di rango statutario (secondo la Corte “indubbiamene estensibile a tutti i tipi sociali in quanto attinente alle condizioni essenziali del tipo contratto sociale”), per poi indicare quanto tale divieto può trovare applicazione anche in caso di pattuizioni di rango extrasociale. Su tale ultimo punto ritiene la Corte che “se il patto parasociale avesse la funzione essenziale di eludere il divieto dell’art. 2265 c.c. esso diverrebbe un negozio in frode non meritevole di autonoma tutela ed incorrente a sua volta nella previsione di nullità dell’articolo citato...” e che “Diversa, però, potrebbe essere la situazione qualora il negozio costituente patto parasociale, pur contenendo una clausola di esclusione da rischi e da utili che verrebbero caricati agli altri contraenti (i quali siano a loro volta soci), abbia una sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c.”.
In sintesi secondo la Corte di cassazione per la declaratoria di nullità di una pattuizione ai sensi dell’art. 2265 c.c. è necessario che:
- sia di rango statutario;
- sia caratterizzata dalla natura assoluta e costante della esclusione della partecipazione del socio dagli utili ovvero dalle perdite ovvero da entrambe;
- l’effettiva violazione del divieto sia valutata nella sostanza e non come mero giudizio formale;
- si sia in presenza dell’effettiva possibilità per il socio escluso dalla partecipazione alle perdite di incidere sulla gestione della società;
- ove pattuizione extrasociale, la stessa abbia la funzione essenziale di eludere l’art. 2265 c.c., così concretizzando un negozio in frode della legge ex art. 1344 c.c.;
- sia esclusa, con indagine del giudice, una autonoma meritevolezza di tutela ex art. 1322 c.c. della pattuizione, in quanto ove esistente essa escluderebbe il ricorso all’art. 1344 c.c. e quindi l’applicabilità del divieto a pattuizioni extrasociali.
L’estensione del divieto alle società di capitali, seppur a parere di chi scrive discutibile, è ormai orientamento consolidato e pertanto non sarà oggetto di specifica disamina. Viceversa appare utile richiamare le decisioni di merito relative ad alcuni dei requisiti indicate dalla Corte di cassazione o perché poco esaminati dalla giurisprudenza ovvero perché applicati dalle corti di merito in maniera difforme.
La natura assoluta e costante della esclusione
Come detto l’eventuale esclusione del socio da ogni perdita o utile deve essere assoluta e costante.
Il requisito della assolutezza, inteso come totalità della esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite è ben delineato dalla sentenza della Corte di cassazione del 1994, la quale giustamente rileva come la normativa dettata in materia di società ben ammetta la possibilità che la partecipazione agli utili o alle perdite non sia proporzionale alla percentuale di capitale sociale sottoscritta dal socio.
Sempre la Cassazione sottolinea come tale conclusione trovi conferma anche nel tenore letterale dell’art. 2265 c.c. il quale parla di esclusione da “ogni” partecipazione agli utili o alle perdite.Tale indiscutibile conclusione non ha dato voce a opinioni contrarie, sì che non esistono sentenze che affrontino il tema se non in termini di pedissequa ripetizione di quanto affermato dalla Corte di cassazione.
Tuttavia di un certo interesse è il particolare caso deciso dal Trib. Milano, Sez. impr., 3 ottobre 2013, in questa Rivista, 6/2014, 688. In questa sentenza il Giudice, correttamente, esclude la sussistenza del requisito della assolutezza alla luce della circostanza che il prezzo fisso previsto dall’opzione era pari a metà dell’originario investimento. Ne conclude il Giudice che l’eventuale esclusione dalle perdite, ove ipotizzabile, sarebbe stata solo parziale e non assoluta. Si tratta di una delle poche decisioni che hanno valutato con puntualità l’elemento prezzo, spesso trascurato, in quanto solo l’equivalenza (ovvero addirittura l’incremento) del prezzo rispetto all’investimento iniziale può comportare la teorica esclusione totale dalle perdite.
Viceversa il requisito della costanza appare di più incerta applicazione e non a caso più spesso oggetto di specifica valutazione. Molte decisioni in presenza di un intervallo temporale di validità della opzione concludono per la assenza del requisito della costanza. Così ad esempio Trib. Milano, Sez. III, 13 settembre 2011, in questa Rivista, 11/2012, 1163 ovvero Trib. Cagliari 3 aprile 2008, in Banca e Borsa, 2009, II 746 o Trib. Milano, Sez. impr., 6 agosto 2015, e ancora, la precedentemente citata sentenza del Trib. Milano, Sez. impr., 3 ottobre 2013.
Seppur talvolta in termini apodittici, e spesso in presenza di altri elementi volti ad escludere la natura elusiva dell’opzione, i Giudici estensori di tali decisioni affermano che la circostanza che l’opzione sia sottoposta ad un termine finale renderebbe l’esenzione del socio dalla partecipazione alle perdite non costante perché non durevole per tutta la vita sociale.
Non sono mancate opinioni dissenzienti sia in dottrina che in giurisprudenza, principalmente basate sulla considerazione che il termine finale, essendo l’esercizio della opzione liberamente rimesso al socio titolare della stessa, non poteva considerarsi quale una limitazione della costanza della sua esenzione dalla partecipazione alle perdite. In questo senso App. Milano, Sez. I, 16 febbraio 2016, n. 636, la quale ritiene che a nulla rilevi la durata limitata dell’impegno, ovvero App. Milano, Sez. I, 17 settembre 2014, in questa Rivista, 5/2015, 555 la quale, solo implicitamente, pare aderire a tale indirizzo concludendo per l’illegittimità della clausola nonostante la stessa fosse temporalmente limitata. La questione appare ancora aperta seppure qualora l’opzione sia soggetta ad termine iniziale, anche chi favorevole ad interpretazioni più rigoriste non potrebbe negare che il rischio di subire una perdita, in caso di scioglimento della società per perdita del capitale sociale, sussisterebbe comunque.
Viceversa nessun problema interpretativo dovrebbero comportare casi affini a quello giudicato dal Trib. Milano, Sez. VIII, 9 febbraio 2012, ord., in questa Rivista, 4/2012, 369. Il caso giudicato aveva per oggetto una opzione stipulata dopo l’entrata del socio nella compagine sociale, esponendolo quindi nel periodo tra l’investimento e la stipulazione della opzione alla piena partecipazione al rischio di subire delle perdite. Certo è che la limitazione temporale della potenziale esenzione dalle perdite del socio (cioè il limite temporale al quale è sottoposto l’esercizio della opzione) se letto alla luce della ratio comunemente riconosciuta al divieto di patto leonino (cioè tutela della corretta gestione societaria), non può essere considerato come un elemento irrilevante ai fini della valutazione della legittimità della opzione. È tuttavia difficile stabilire a priori quando questo rischio (a dire il vero a parere di chi scrive assai ipotetico) raggiunge la gravità (Intesa come durata della esenzione) idonea a giustificare una così grave sanzione normativa.Infine privo di dubbi interpretativi dovrebbe essere il caso in cui l’opzione è sottoposta ad una condizione, cioè la sua efficacia (e quindi l’ipotetica esenzione del socio dal subire le perdite) dipende da un evento incerto e non rimesso alla volontà del titolare dell’opzione. In tal senso, oltre alla Cassazione 1994, si è pronunciata la Cass., Sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642, in questa Rivista, 2000, 6, 697.
Effettiva possibilità del socio escluso dalla parteciazione alle perdite di incidere sulla gestione della società
Come giustamente ricordato dalla Cassazione nella propria decisione del 1994, affinché si verifichi l’effettiva violazione del divieto di patto leonino è necessario che il socio leo sia in grado di incidere sulla gestione della società. In realtà il requisito, necessario se si vuole aderire alla ratio della norma, non ha trovato puntuale applicazione e disamina nella giurisprudenza di merito. Un riferimento, seppur non analitico, è contenuto nella decisione del Trib. Milano, Sez. impr., 3 ottobre 2013, nella quale il giudice ha ritenuto circostanza dirimente, assieme ad altre, che il diritto di opzione spettasse ad un socio di minoranza a fronte dell’ampio potere gestionale lasciato in capo al socio di maggioranza. In maniera più estesa si è pronunciato in tal senso Trib. Cagliari 3 aprile 2008, seppur anche in questo caso manchi una analisi approfondita in merito a quale livello di influenza sia collegata la capacità di determinare la gestione sociale, ovvero di influenzarla, e su come questa circostanza si concili con le regole societarie dettate dal codice civile. Degno di nota è quanto sostenuto nel provvedimento dell’App. Milano Sez. I, 17 settembre 2014, nel quale la corte milanese estende il concetto fino al disinteresse del socio di minoranza titolare della opzione ad esercitare i diritti di controllo ad esso spettanti.
Chi scrive ha già manifestato in precedenti lavori delle perplessità sul fatto che, nella pratica, i titolari delle opzioni a prezzo fisso siano tecnicamente in grado di determinare la gestione della società in maniera “scriteriata”, e ciò in considerazione del fatto che spesso si tratta di soci di minoranza e che le governance delle società di capitali difficilmente consentirebbero tale libertà di azione. Non a caso manca spesso nelle decisioni che concludono per la nullità delle opzioni un approfondimento di questo aspetto. La stessa decisione della Corte d’Appello del 2014, appena citata, costituisce una prova di tale difficoltà laddove equipara la possibilità del socio escluso dalla partecipazione alle perdite di incidere sulla gestione con il disinteresse che esso avrebbe ad esercitare i propri di ritti di controllo, di fatto estendendo il requisito indicato dalla Corte di cassazione in maniera non molto coerente con la ratio del divieto.
Intento elusive e autonoma meritevolezza della opzione
Sicuramente questo requisito è quello che più ha attirato l’attenzione delle analisi contenute nelle sentenze che si sono occupate dell’argomento. E ciò non a caso in quanto è la stessa Cassazione del 1994 a ricordare che il divieto di cui all’art. 2265 c.c. è applicabile alle sole clausole di rango statutario e che per sanzionare pattuizioni extrasociali è necessario che le stesse siano considerate elusive del divieto ai sensi dell’art. 1344 c.c. Tutte le decisioni esaminate omettono di argomentare in punto fraudolenza della pattuizione ai sensi dell’art. 1344 c.c., approfondendo al contrario l’esistenza o meno nei casi esaminati di una autonoma meritevolezza di tutela della pattuizione contestata. Tuttavia le chiavi interpretative appaiono differenti ed ascrivibili, con approssimazione, a due diverse correnti. Da un lato la recente sentenza dell’App. Milano, Sez. I, 17 settembre 2014, in linea con la decisione del Trib. Milano, Sez. VIII, 9 febbraio 2012, ord., afferma esplicitamente che la valutazione della autonoma meritevolezza della pattuizione deve essere effettuata non limitatamente ai rapporti così regolati tra le parti del contratto (i soci) ma anche, e si potrebbe dire soprattutto, in ragione della tutela dell’interesse della società partecipata.
Nella successiva sentenza sempre dell’App. Milano, Sez. I, 16 febbraio 2016, n. 636, a conferma della appena citata decisione del Trib. Milano del 2012, seppur in maniera meno evidente, sembra seguire la stessa impostazione.
Diversa invece l’interpretazione adottata da Trib. Milano, Sez. III, 13 settembre 2011, Trib. Milano, Sez. VIII, 9 febbraio 2012, ord., Trib. Milano, Sez. impr., 3 ottobre 2013, Trib. Milano, Sez. impr., 6 agosto 2015, Trib. Verona 26 maggio 2014 su www.ilcaso.it, 2015.
In tali decisioni i giudici, dando risalto principalmente all’assetto complessivo che le parti stipulanti hanno voluto dare ai propri rapporti, valutano la meritevolezza alla luce degli interessi delle parti stipulanti, sottolineando la natura extrasociale delle pattuizioni incriminate. In merito alla questione se la meritevolezza di tutela debba riferirsi ai soli interessi perseguiti delle parti contraenti, ovvero se essa debba essere valutata anche alla luce dell’interesse della società, la sentenza Cass., Sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, lascia in effetti ampi margini interpretativi. Il richiamo all’art. 1322 c.c. non può che privilegiare la valutazione dell’assetto che le parti del contratto hanno voluto dare ai propri rapporti, richiedendo solo il controllo del rispetto della causa tipica nel caso di contratti appunto tipici (art. 1322, comma 1), ovvero la meritevolezza di tutela in caso di contratti atipici (art. 1322, comma 2). Tale impostazione sembra quella adottata dalla stessa Corte di cassazione la quale non a caso fa riferimento ad una propria risalente decisione, nella quale si era concluso per la validità di una convenzione avente natura autonoma rispetto al contratto sociale e configurante un contratto di garanzia.
Significativa in tal senso è la decisione del Trib. Verona 26 maggio 2014, nel quale il giudice conclude per l’esistenza della autonoma meritevolezza della pattuizione alla luce del fatto che la pattuizione non era neppure inserita in patto parasociale ma in un contratto di compravendita e strettamente funzionale all’acquisto delle partecipazioni, e quindi di certo conforme al dettato di cui all’art. 1322 c.c. Pur non condividendosi a pieno la distinzione tra opzione inserita in un contratto di compravendita e opzione inserita in un patto parasociale (ciò che rileva è la natura endosocietaria, o extrasociataria del contratto nel quale è inserita l’opzione e non la qualificazione del più ampio accordo quale patto parasociale), la conclusione sembra difficilmente contestabile. E poiché quasi tutti i casi esaminati nei provvedimenti esaminati sono relative ad accordi di natura mista (accordi di investimento, joint venture, ecc...), ma principalmente volti a regolare l’acquisito di partecipazioni, la stessa potrebbe risultare dirimente.
È tuttavia vero che nel prosieguo della decisione la Corte di cassazione più volte fa esplicito riferimento all’interesse della buona gestione della società stessa, richiamando la stessa ratio del divieto di patto leonino nella sua più moderna formulazione, così riportando nell’alveo della valutazione considerazioni di natura “pubblicistica”.
Tuttavia incentrare la valutazione della meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. sull’interesse della società, trascurando gli interessi “privatistici” perseguiti dai soci sul piano extrasociale, può portare a confondere ciò che rileva sul piano extrasociale con quanto invece si riflette direttamente sulla società target. Prova ne siano alcune affermazioni non condivisibili contenute nella sentenza dell’App. Milano, Sez. I, 17 settembre 2014, quale l’assimilazione di fatto della opzione put a prezzo fisso stipulata tra i soci ad un diritto di recesso a condizioni inique (il recesso coinvolge la società, l’opzione rileva solo tra i soci), ovvero la considerazione che un diritto di exit incondizionato di tal natura potrebbe mettere in seria difficoltà la società target arrivando a ledere il diritto di prevalenza dei terzi creditori rispetto al rimborso dei finanziamenti dei soci salvaguardato dall’art. 2467 c.c. (pare vero il contrario visto che con l’opzione il rischio economico è spostato sul socio mentre la società o è indifferente ovvero, nel frequente caso di investimento iniziale realizzato a mezzo di aumento di capitale, addirittura godrà in maniera permanente della ricapitalizzazione).
D’altro canto pretendere che il vaglio della autonoma meritevolezza della pattuizione sia eseguito esclusivamente in considerazione dell’assetto complessivo dei rapporti tra i soli soggetti contraenti appare, quanto meno, non completamente conforme sia al dettato della sentenza della Corte di cassazione sia ai criteri dettati da dottrina e giurisprudenza in merito alla applicazione del comma 2 dell’art. 1322 c.c.
Conclusioni
L’esame delle pronunce citate dimostra come la questione della validità delle opzioni put a prezzo fisso sia ben lungi da trovare un suo assetto definitivo. Appare anche evidente che, pur essendoci ancora discussioni aperte su aspetti quali il requisito della costanza o della effettiva capacità del socio escluso dalla partecipazione alle perdite di incidere sulla gestione della società target, il vero punto nodale per l’applicazione del divieto di cui all’art. 2265 c.c. a pattuizioni extrasociali è rappresentato dalla valutazione sulla natura fraudolenta ai sensi dell’art. 1344 c.c. della opzione pattuita tra I soci e sulla sua meritevolezza di tutela. L’argomento è assai complesso e rischia di essere banalizzato in uno scritto che si pone obiettivi prettamente pratici; tuttavia ci sia consentita qualche considerazione.
Pare a chi scrive che le questioni da risolvere siano principalmente due: i) se il giudizio di meritevolezza sia o meno un post quam rispetto alla valutazione della natura fraudolenta della pattuzione ex art. 1344 c.c.; ii) se la meritevolezza di tutela della opzione debba essere valutata esclusivamente in considerazione degli interessi extrasociali perseguiti dai soci contraenti ovvero principalmente in considerazione degli interessi sociali (forse più correttamente della gestione societaria). Quanto al primo dubbio il passaggio dedicato all’argomento dalla Cassazione del 1994, per quanto sintetico, è chiaro: poiché la norma è dettata solo per le pattuizioni di rango societario, l’applicazione a pattuizioni di natura parasociali, o meglio extrasociali, richiede che la stessa sia passibile di sanzione ex art. 1344 c.c., in quanto essenzialmente volta ad eludere il divieto di cui all’art. 2265 c.c. In tal senso il giudizio di meritevolezza alla luce dell’art. 1322 c.c., assurgerebbe ad uno dei criteri (tuttavia non l’unico) per valutarne la natura fraudolenta.
In merito poi alla valutazione della meritevolezza di tutela della opzione ex art. 1322 c.c., la questione sarebbe di facile soluzione se si valutasse solo la portata normativa del richiamo.Viceversa si complica assai dando rilevanza alla ratio attribuita al divieto di patto leonino. Su questo, in attesa di chiarimenti, poche sintetiche considerazioni. Porre a fondamento della valutazione della autonoma meritevolezza della pattuizione la stessa ratio del divieto che si vorrebbe eluso, rischia di realizzare un circolo vizioso. Se si ritiene che all’esenzione del socio dal rischio di subire perdite corrisponda necessariamente una non corretta gestione societaria e si pone tale postulato (tale perché rimane sempre privo di dimostrazione) al di sopra delle volontà perseguite in ambito extrasociale dai soci, si dovrebbe concludere sempre per l’invalidità delle pattuizioni seppur di rango extrasociale. Si tratterebbe quindi di una applicazione analogica della nullità di cui all’art. 2265 c.c., di dubbia legalità.
Viceversa dando rilevanza alla volontà extrasociale perseguita dai soci che hanno pattuito l’opzione, nella pratica dette opzioni risulterebbero quasi sempre legittime. Come già ricordato in altri scritti, infatti, queste opzioni sono nella maggior parte dei casi inserite in accordi che trovano la loro ragion d’essere in complesse operazioni societarie svolgendo funzioni assai differenti (garanzia dell’investimento, bilanciamento di obblighi parasociali, exit strategy per soci finanziari ecc...) tutte meritevoli di tutela. Ciò a prescindere dal fatto che, come ricorda il Trib. Verona 26 maggio 2014, le opzioni sono sempre funzionali (ed anzi a parere di chi scrive elemento costitutivo in quanto contratto a formazione progressiva), a contratti di compravendita sulla cui meritevolezza di tutela, in quanto contratti tipici, non vi è spazio discrezionale.
Aderendo a tale impostazione, al contrario di quanto sopra, si giungerebbe quasi sempre, eccettuati casi limite, a giudicare legittime le opzioni put a prezzo fisso. Pur comprendendo la natura squisitamente giuridica della questione è lecito chiedersi se le interpretazioni eccessivamente rigoriste fornite da alcune decisioni, siano opportune specialmente in applicazione di principi di analisi economica del diritto, la cui adozione è stata caldeggiata recentemente sulla stampa nazionale da esimi giuristi.
(Prima pubblicazione su Le Società, ed. IPSOA, 11/2016)